Dalla rinascita alla Lotta con Genova
1 - Preambolo
Come accennato nella parte precedente, i vecchi abitanti del litorale e tra questi i Matuziani, terminata la minaccia delle incursioni Saracene, lasciarono i loro rifugi montani per ritornare sulla costa.
I loro vecchi borghi erano quasi del tutto distrutti per cui si trovarono a dovere ricostruire tutto, usando però dei criteri difensivi più sicuri. Scorrerie organizzate come quello precedenti non ce ne saranno più, ma rimaneva sempre il pericolo di singoli gruppi pirateschi che potevano recare offese agli abitati.
Un esempio pratico è quello sorto sulla collina della Costa, la Pigna. Creato proprio con una forma di pigna, le case erano tutte strette le une alle altre, alle volte sorrette tra loro da archivolti, molto alte a mo' di torri. Gli ingressi erano alti rispetto il piano stradale e raggiungibili mediante scalette facilmente eliminabili in caso di pericolo.
L'ingresso al borgo era controllato da diverse porte, se ne contarono 15 all'inizio, sorvegliate e messe in condizioni di essere difese più facilmente. Praticamente una specie di fortezza racchiusa su se stessa, oltretutto difesa da un forte, posto all'incirca dove ora sono i Giardini Regina Elena, di proprietà dei Conti di Ventimiglia. Lo stesso modello di difesa venne attuato anche nella zona del Piano, attorno alla Pieve e la Chiesa di San Siro.
Questo tipo di fortificazione, forse studiata per incursione saltuarie, venne ben presto messa a dura prova dagli eventi che stavano per scatenarsi.
Le famiglie intanto ritornavano a popolare le campagne. Tre documenti degli anni 979-980 descrivono con precisione le procedure seguite e costituiscono anche una preziosa fonte toponomastica, determinando i confini del territorio compreso fra i capi Nero e Verde e, lungo le rispettive dorsali, fino al vertice di monte Bignone. Il primo documento del 979 è una petizione di ventotto famiglie, che chiedono (ed ottengono) in enfiteusi ventotto porzioni di terreno collinare e montano ubicate sulla dorsale che da monte Bignone scende a capo Pino, oltre a un terreno in regione Paragallo (l'odierna Baragallo), nella valle del torrente San Francesco e prossima al castrum. Col secondo documento del 979 il vescovo Teodolfo assegna a tali famiglie la metà dei terreni posseduti e impone di corrispondergli, per il primo anno, la nona parte del grano, l'ottava per il secondo e la settima per il terzo e seguenti; le esenta per un decennio dal versare parti della produzione delle olive, dell'uva e dei fichi, ma per ogni componente maschile di oltre dieci anni di età era dovuto annualmente al vescovo « un buon pollo ».
Dopo dieci anni la metà del vino, dei fichi e dell'olio doveva essere consegnata al vescovo.
Nel documento del 980, tenendo conto che i possedimendi nel territorio matuziano e tabiese, comprese le chiese già costruite, erano in gran parte distrutti e disabitati quindi senza poterne trarre profitto, vennero donati per tre quarti, rendite comprese, agli ordini monastici e clericali presenti sul territorio.
Una parte di altre proprietà ecclesiastiche furono concesse in feudo ad alcuni personaggi di spicco e ai loro discendenti, esentandoli dal pagamento di decime, dazi e diritti. In contropartita dovevano giurare fedeltà al Vescovo e garantire la sicurezza per lui e la curia al suo seguito e, in occasione delle sue visite a San Romolo, dovevano rendergli omaggio solenne e alla curia ospitalità e cavalcature.