La Chiesa dei Gesuiti
La costruzione della primitiva chiesa in stile romanico risale ad un periodo compreso tra la seconda metà dell'XI secolo e la prima di quello successivo, mentre nel 1142 l'edificio sacro entrò in possesso della comunità sanremese dei Benedettini del convento genovese di Santo Stefano, residenti in un monastero annesso alla chiesa, che nel 1210 accolse le spoglie di sant'Ampelio.
Avendo poi deciso l'arcivescovo di Genova Gualtiero da Vezzano di spostarsi dalla Pigna, facendo costruire un nuovo palazzo arcivescovile nella zona di Santo Stefano, il presule genovese indusse nel 1258 i monaci benedettini ad una permuta, consistente nel trasferimento dei Benedettini nella chiesa di San Martino di Via sul Bisagno a Genova, e nella cessione della chiesa matuziana di Santo Stefano all'arcivescovo genovese.
A partire dal XIII secolo la chiesa di Santo Stefano ospitò anche numerose sedute del Parlamento cittadino, alle quali partecipavano tutti gli uomini maggiorenni della popolazione per decidere insieme i provvedimenti più rilevanti da assumere nell'interesse della comunità. Nel Quattrocento la chiesa era retta da due massari che ne amministravano i beni, mentre l'arcivescovo di Genova nominava periodicamente un cappellano che si occupava delle funzioni religiose.
Nei secoli successivi la chiesa diede tuttavia segni inequivocabili di fragilità strutturale, tanto che nel 1601 le autorità comunali decisero di procedere alla completa demolizione dell'edificio ormai pericolante e del tutto instabile.
Dopo l'avvio dell'innalzamento di nuovi muri sulle vecchie fondamenta, ci si accorse però che la totale ricostruzione di un nuovo edificio sulla precisa area del vecchio non soddisfaceva le esigenze di una popolazione sensibilmente accresciuta, che necessitava di una chiesa notevolmente più capiente di quella precedente.
Nel 1610 venne quindi stabilito di abbattere fino al suolo i muri in ricostruzione, di realizzare nuove fondazioni per la facciata in modo da allungare in avanti il corpo della chiesa, e di ampliare anche la larghezza dell'edificio in modo tale da includervi anche le cappelle laterali che sporgevano all'esterno fuori del muro perimetrale.
Ampliata l'area edificabile, si diede inizio alla costruzione, anche se ben presto si dovette affrontare il problema dell'insufficienza dei fondi disponibili per l'erezione del tempio, tanto da indurre le autorità locali a ricorrere alla « sequella », ossia all'obbligo, da parte degli uomini e delle donne dai dodici ai settant'anni, di lavorare, a titolo completamente gratuito, per eseguire lavori ritenuti di pubblica utilità. Intorno al 1611 la costruzione era quasi terminata, in modo tale che, dopo la demolizione della vecchia chiesa, rimaneva in piedi soltanto il coro, ossia l'abside, che però era allora inutilizzabile perché ingombro di macerie e di vario materiale edilizio.
Intanto erano ormai giunti a maturazione i tempi per la venuta a Sanremo di un primo gruppo di padri Gesuiti, il cui arrivo fu facilitato dal testamento del prete sanremese Alessandro de Bernardi del maggio 1613, con il quale il sacerdote pose come condizione che essi fondassero, con i proventi di tale eredità, una residenza nella nostra città. Giunti a Sanremo nel 1616, i Gesuiti si interessarono subito dell'istituzione di una scuola destinata all'educazione dei giovani sanremesi, che fu temporaneamente ospitata in alcune stanze di un vecchio edificio presso la chiesa di Santo Stefano, mentre i lavori in quest'ultima erano bloccati ormai da una decina d'anni, tanto che si potevano a malapena celebrare le sacre funzioni su un altare non ancora crollato e chiuso da uno steccato provvisorio nella zona del presbiterio.
Per trovare poi un'adeguata sistemazione ai Gesuiti che erano alla ricerca di una sede stabile, il prevosto Sasso chiese che i resti dell'antica chiesa di Santo Stefano e l'area dove era appena iniziata la nuova venissero affidati a loro.
La richiesta venne quindi accolta il 21 aprile 1622 per la parte ecclesiastica e il 20 febbraio 1623 per la parte amministrativa. Preso possesso della loro nuova sede nel marzo del 1623, i Gesuiti si attivarono immediatamente per la prosecuzione dei lavori della chiesa, tanto che già nell'agosto 1626 chiesero al Comune il permesso di demolire a loro spese il campanile e collocare provvisoriamente le campane in altro sito per poter riedificare il nuovo.
Dopo una serie di successivi stanziamenti da parte del Comune deliberati tra il 1650 e il 1652, i lavori di completamento della nuova chiesa proseguirono con particolare alacrità, tanto che, intorno al 1670, almeno le strutture portanti dell'edificio erano terminate con la posa del tetto e la fine dei lavori più importanti per l'ultimazione della chiesa, anche se mancavano ancora gli addobbi, i ricami e i fastosi ornamenti, ritenuti allora - nell'età del trionfante barocco - assolutamente indispensabili. L'ambizioso progetto di rinnovamento totale dell'edificio, perseguito con tenacia e decisione dai Gesuiti sanremesi a partire dal 1668 circa, venne forse stimolato anche dalla contemporanea erezione, ad opera dell'architetto Pietro Antonio Corradi, del limitrofo e imponente monastero delle Turchine.
Il 7 dicembre 1668 il Consiglio comunale erogò la somma di quattrocento lire per dare il bianco alla volta, mentre il 9 febbraio 1669 veniva pattuito di affidare al reverendo sanremese Gio Batta Aicardi l'incarico di dipingere lo stemma della Comunità di Sanremo sul soffitto della chiesa.
Nel luglio del 1671 e nel gennaio del 1672 furono inoltre stanziate cinquecento lire affinché il reverendo Antonio Francesco Pesante si recasse a Genova per far eseguire copia del quadro raffigurante il martirio di santo Stefano esistente nell'omonima chiesa genovese.
Il 18 settembre 1671 fu invece stabilito di innalzare il campanile della chiesa, ritenuto troppo basso per i gusti barocchi dell'epoca, con relativi lavori di ingrandimento sovvenzionati con due finanziamenti erogati nel settembre 1677 e nel marzo 1678.
Dopo una serie di lunghe e laboriose trattative, il 25 febbraio 1734 il rettore padre Mario Torre dichiarò davanti alle autorità municipali di accettare la convenzione con la quale il Comune di Sanremo cedeva formalmente la chiesa di Santo Stefano ai padri Gesuiti, i quali, per ricordare degnamente l'avvenimento, fecero apporre una lapide sulla facciata della chiesa prospiciente l'attuale piazza Cassini, nella quale è riportata una scritta in latino, la cui traduzione italiana recita testualmente: "La Comunità di Sanremo dedicò a Santo Stefano Protomartire questo tempio rovinato per l'antichità e ricostruito più grandioso con proprio denaro. I Padri della Compagnia di Gesù accettando(lo) in dono da essa (Comunità) lo ornavano a proprie spese ingrandito in questa misura".
Negli stessi anni proseguiva inoltre alacremente l'attività scolastica svolta nel Collegio attiguo alla chiesa, il quale fu ulteriormente ingrandito a partire dal 15 ottobre 1742 grazie al finanziamento del gesuita Paolo Francesco Negrone, mentre nel 1764 venne lastricata la piazza davanti alla chiesa su iniziativa del rettore padre Agostino Galleano di Ventimiglia.
In questo periodo furono condotti anche nuovi importanti lavori all'interno della chiesa, che venne ulteriormente ingrandita con l'apertura di due nuove cappelle laterali, una dedicata nel 1765 alla Madonna della Speranza, e l'altra, sempre nello stesso anno e su iniziativa del padre missionario Girolamo Durazzo, a san Giuseppe; quest'ultima sarebbe stata poi scelta nel secolo scorso per stabilirvi il trono della Madonna del Rosario di Pompei.
A questo periodo risale anche la sistemazione di una serie di quadri, raffiguranti uno la guarigione di Palladia, un altro santo Stefano che protegge i marinai, un terzo l'invenzione delle reliquie di santo Stefano, che si trovano attualmente sulla parete di destra della navata centrale, mentre sulla parete sinistra furono collocati altri dipinti relativi alla vita e alle opere del santo titolare della chiesa: la resurrezione di un bambino da parte di santo Stefano, la traslazione delle reliquie del santo a Roma, la deposizione del suo corpo nella tomba ubicata nella chiesa di San Lorenzo a Roma e infine un episodio della predicazione del santo, attribuibili a Francesco Carrega (1706-1780).
Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù con bolla papale del 21 luglio 1773, anche i Gesuiti sanremesi dovettero attenersi alle disposizioni pontificie, mentre la chiesa di Santo Stefano veniva affidata al prete Paolo Giuseppe Bestoso.
Ricostituita poi ufficialmente la Compagnia il 7 agosto 1814, il capo del Consiglio degli Anziani Tomaso Borea d'Olmo, facendosi interprete dei sentimenti dell'intera cittadinanza, propose che si richiamassero i padri Gesuiti e si riaffidasse loro la chiesa di Santo Stefano e l'annesso Collegio con un contributo in denaro per le scuole. La richiesta fu esaudita il 12 luglio 1815 con la concessione del nullaosta governativo al ritorno dei Gesuiti a Sanremo.
Il 16 agosto 1816 venne firmato l'atto di cessione ai Gesuiti del collegio, della chiesa di Santo Stefano e di tutti i beni che erano stati tenuti in affitto dal marchese Tomaso Borea d'Olmo, anche se a questo atto non seguì l'immediato ritorno dei Gesuiti, che tornarono in città soltanto nel novembre del 1838 grazie anche a un lascito del vescovo Giovanni Battista D'Albertis.
Per via dei gravi danni arrecati dai terremoti del 1818 e del 1831, che avevano lesionato soprattutto la volta della chiesa, furono eseguiti alcuni interventi di riparazione dell'edificio, tra cui il rifacimento del pavimento in marmo nel 1840 e il rafforzamento della volta, poi dipinta da Siro Orsi, un pittore di scuola lombarda; tali affreschi sarebbero poi andati perduti in occasione dei restauri resi necessari per riparare i danni del successivo terremoto del 23 febbraio 1887, cosicché dell'Orsi restano oggi soltanto alcuni dipinti posizionati dietro l'altare maggiore. Ulteriori lavori di abbellimento all'interno della chiesa furono realizzati nel 1843 con i proventi di un lascito che il rettore padre Siro Lombardi aveva donato alla chiesa.
In seguito ad una serie di violente manifestazioni antigesuitiche avvenute nel marzo del 1848, le autorità matuziane erano state intanto costrette ad ordinare lo sgombero degli ultimi padri rimasti nel convento. Pur senza la guida spirituale dei Gesuiti, proseguivano ugualmente le pratiche per erigere la chiesa di Santo Stefano a parrocchia, che sarebbe stata ufficialmente costituita il 22 ottobre 1888.
Nel 1853 si era nel frattempo celebrata la solenne dedicazione della chiesa e dell'altare maggiore da parte del vescovo di Ventimiglia Lorenzo Biale.
Passati gli anni più accesi della campagna antigesuitica, i padri Gesuiti avevano ripreso a frequentare la nostra città, ma soltanto il 10 novembre 1907 poterono riprendere regolarmente le celebrazioni religiose in Santo Stefano, prendendo anche possesso della parrocchia il 1° febbraio 1927.
Intanto, il 22 ottobre 1919, su richiesta degli stessi Gesuiti, la Sacra Congregazione dei Riti aveva dichiarato il Sacro Cuore di Gesù contitolare della parrocchia insieme a Santo Stefano; a seguito di questo decreto, venne collocata sopra l'altare maggiore la grande statua del Sacro Cuore, mentre il quadro di Santo Stefano, che vi si trovava da oltre due secoli, venne affisso sulla parete a sinistra dell'altare.
Nel frattempo furono venduti gli ultimi beni sanremesi appartenenti ai Gesuiti, il cui ricavato venne anche utilizzato per finanziare i restauri, iniziati nel 1927 e terminati nel 1933, motivati dal fatto che la volta della chiesa mostrava ancora lesioni provocate dal sisma del 1887; nel corso di tali interventi fu pure innalzato e rafforzato il campanile.
Alla realizzazione dei lavori contribuì anche il Comune con denaro e assistenza tecnica prestati in modo particolare dal podestà di Sanremo Pietro Agosti.
Il 31 ottobre 1938 il vescovo di Ventimiglia Agostino Rousset, su richiesta degli stessi Gesuiti, trasferì il beneficio parrocchiale della chiesa di Santo Stefano a quella di Nostra Signora della Mercede, in modo tale che ancor oggi la chiesa di Santo Stefano non riveste funzioni parrocchiali, rimanendo tuttavia sempre amministrata spiritualmente dalla locale comunità di Gesuiti.
L'attuale edificio presenta una pianta ad unica aula rettangolare con cappelle laterali alternate a coretti, in ossequio ad una sistemazione quasi sempre applicata nelle chiese gesuitiche, e presbiterio privo di coro. Le opere di decorazione a stucco dell'interno furono realizzate nel 1679 dall'architetto e stuccatore Marc'Antonio Grigo.
La facciata rettilinea, innalzata nella prima metà del Settecento, si sviluppa su due ordini di lesene binate ai lati, mentre spicca in modo particolare la parte superiore elevata al di sopra di un alto piedistallo e conclusa con un frontone triangolare.
La plasticità delle pareti è rimarcata dalla presenza di una serie di cornici, lesene e specchiature che determinano suggestivi effetti chiaroscurali di contrasto con l'uniformità della coloritura.
L'altare maggiore, forse da identificarsi con quello donato alla chiesa nel 1770 da Giuseppe De Ferrari, è adornato sulla parete di sinistra dalla grande pala raffigurante la lapidazione di santo Stefano (vedere sopra), realizzata su commissione del Consiglio comunale matuziano, probabilmente nell'ultimo trentennio del XVII secolo, da un ignoto pittore quasi sicuramente genovese, che lo copiò dall'omonimo dipinto eseguito da Giulio Romano nel 1523 e custodito nella chiesa di Santo Stefano a Genova.
Le due cappelle laterali più vicine alla zona presbiteriale sono state invece decorate su iniziativa delle più prestigiose committenze private della città. Proprio dal ricavato della vendita delle due cappelle, il Consiglio comunale deliberò nel 1680 di trarre i fondi per acquistare i marmi pregiati destinati ad ornare l'altare maggiore, dove sarebbe stato posto anche lo stemma della città.
Verso il 1920 l'altare maggiore venne quindi in gran parte rivestito di nuovi marmi, mentre il presbiterio fu adornato con stucchi e dorature.
La prima cappella a sinistra dell'entrata, intitolata alla Santa Famiglia, conserva una pala d'altare costituita da una tela di Nicolas Mignard (1606-1668), raffigurante La Sacra Famiglia a casa in Egitto, sovrastata da un ovale rappresentante San Giovanni Berchmans studente gesuita, mentre nelle due nicchie sono sistemate le statue di San Luigi Gonzaga in quella di sinistra e Santa Caterina d'Alessandria in quella di destra.
La prima cappella a destra, dedicata a Nostra Signora della Speranza, conserva un'artistica pala d'altare in cui è raffigurata la Madonna titolare considerata protettrice della gente di mare, sormontata da un ovale con Santo Stanislao Kostka novizio gesuita, mentre la volta è affrescata con la rappresentazione di alcuni angeli adoranti. Le due nicchie accolgono le statue di San Giuseppe a sinistra e di Santa Teresa d'Avila a destra.
La seconda cappella sul lato destro fu invece acquistata nel 1679 dal nobile sanremese Paolo Battista Palmari con l'obbligo della sua sistemazione e completamento entro quattro anni, la facoltà di adibirla a sepoltura della propria famiglia e l'impegno a rivestirla tutta di marmo e dedicarla a san Francesco Saverio.
Per l'altare marmoreo seicentesco della cappella, il Palmari volle una tela del più noto e affermato pittore genovese dell'epoca, Domenico Piola (1627-1703), che realizzò un'opera assai significativa che riflette un gusto tanto raffinato quanto contenuto, raffigurante la Madonna, il Bambino, san Francesco Saverio e sant'Anna, nella quale appare evidente anche il contributo del figlio del maestro, Anton Maria. La volta della cappella è affrescata con l'immagine di San Francesco Saverio nella gloria; sulla parete di destra sono effigiati invece la Madonna e san Giuseppe che portano il Bambino a sant'Anna, mentre su quella di destra è raffigurato San Francesco Saverio nell'isola di Sanciano.
Nelle nicchie della cappella sono poi collocate la statua dell'Immacolata a destra e quella di Santo Stefano protomartire a sinistra.
Nella cappella di fronte, sul lato di sinistra, acquistata nel 1680 dai marchesi Borea d'Olmo, dedicata a sant'Ignazio di Loyola e ricchissima di marmi intarsiati, risalta in modo particolare la volta dipinta attorno al 1695 con la Gloria di Sant’Ignazio, realizzata dal pittore e incisore genovese Giovanni Battista Merano (1632 c. - 1698).
L'altare barocco in tarsia marmorea con colonne tortili, del quale lo spazio attorno è rifasciato da artistiche specchiature in tarsia marmorea, di ispirazione ancora cinquecentesca, con le statue di san Giovanni Battista e di san Giovanni Evangelista, mentre i voltini della cappella furono affrescati da Francesco Carrega.
I lavori di ornamento dell'altare, terminati nel 1693, erano stati affidati anch'essi a maestranze lombardo-genovesi.
Il complesso acquista inoltre particolare fascino dalla sistemazione sopra l'altare della prestigiosa pala dovuta ad Andrea Pozzo (1642-1709), notevole pittore prospettico gesuita, eseguita tra il 1669 e il 1671 prima del grande ciclo decorativo della chiesa della Missione di Mondovì, e raffigurante Sant'Ignazio che veste san Francesco Borgia dell'abito gesuita.
Si segnala inoltre la presenza, dietro l'altare maggiore, di alcune tracce appartenenti ad un affresco prospettico di epoca rinascimentale.
Nella sagrestia è custodita infine una tela secentesca raffigurante la Madonna del Latte.
Infine nel presbiterio è conservato un dipinto che doveva essere quello principale della chiesa, dal 1672.
(fonte elaborata da testo di A.Gandolfo; immagini personali e d'archivio)